Rurability

L’olmo del ricordo

Piazza dell'Olmo

C’è un tempo per piangere e un tempo per ricordare.
A questo pensava Aninfa, con una mano poggiata sulla corteccia del grande olmo poco distante da casa sua. Ormai era giunta la sera, e un freddo pungente era sceso sul piccolo paese di Gonnosfanadiga.
Lo stesso freddo di quella sera, notò la giovane stringendosi nel suo scialle. Nonostante il gelo di febbraio le stesse penetrando nelle ossa, non riusciva a muoversi.

D’un tratto, mentre guardava il cielo scuro, i ricordi di cinque anni prima invasero la sua mente: sussultò nel risentire il rombo degli aerei, e subito dopo le esplosioni, le grida della gente, il pianto straziante di chi era rimasto. Come ogni anno, il ricordo di quel giorno terribile che l’aveva cambiata per sempre riaffiorava in lei.

“Vado a fare due chiacchiere in piazza, figlia mia, tu controlla le pecore.”
Quelle le ultime parole di suo babbo. Mai avrebbe pensato che non lo avrebbe nemmeno più rivisto intero. Rabbrividì e si strinse all’albero. Anche quella notte si era ritrovata lì, nello stesso punto, quando tutto era finito. Sola, al freddo, nella più totale disperazione. Non sapeva come avrebbe fatto a sopravvivere: una ragazzina di quindici anni, sola con le sue pecore, cosa avrebbe mai potuto fare? “Babbo, e adesso? Perché mi hai lasciata anche tu?” Lo aveva urlato al cielo, senza però ricevere risposta. Non le era rimasto nulla: sua madre era morta quando lei era in fasce, le aveva detto il babbo. L’unica cosa che le avevano lasciato, insieme al piccolo gregge che non contava più di venti pecore, era quell’olmo che avevano piantato alla sua nascita.

D’un tratto però era successo qualcosa di inspiegabile. L’olmo aveva iniziato a diventare caldo sotto ai palmi gelidi della ragazza, e alzando lo sguardo verso la cima, lei aveva udito la sua voce. Quella di suo babbo, che non sarebbe mai tornato dalla piazza.

“Tu sei forte, sei come le radici di quest’olmo. Rialzati, vivi, non farti mai comandare da nessuno.”
Aninfa si era sentita scaldare il cuore: lui le aveva sempre detto che quell’olmo poteva curare le ferite, e forse era ciò che stava accadendo ai solchi nel suo animo. Asciugandosi le lacrime, si era rialzata. E dal giorno seguente si era rimboccata le maniche, con gran sorpresa e spesso disapprovazione della piccola comunità, perché le donne non fanno i pastori. Ma lei aveva preso le sue pecore e le aveva portate al pascolo, aveva usato la loro lana, aveva imparato a fare del formaggio e a scambiarlo col pane e altri alimenti per poter sopravvivere. In molti l’avevano corteggiata, definendosi gli unici in grado di aiutarla, perché cosa poteva fare una giovane come lei senza un marito? Eppure Aninfa non aveva mai voluto nessuno.

Quelle parole le avevano dato la forza e la determinazione necessaria. Erano passati cinque anni, e l’olmo era ancora lì a sostenerla. Babbo, se oggi fossi qui saresti fiero di me. Aninfa sorrise, fece un’ultima carezza all’albero e si diresse verso casa.

Questo racconto è accessibile nel formato “Comunicazione Aumentativa e Alternativa” e Braille
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The elm of memory

There is a time to cry and a time to remember.

This is what Aninfa thought, with one hand resting on the bark of a great elm not far from his house. The evening came, and a bitter cold felt on the small town of Gonnosfanadiga.

The same cold as that evening, it was noticed by the young woman, she was tightening in his shawl. Despite the February frost was penetrating into her bones, she could not move.

Suddenly, as she looked at the dark sky, the memories of five years before invaded his mind: she trembled at the roar of the planes, and immediately after the explosions, the cries of the people, the heart-breaking tears of those who remained. Like every year, the memory of that terrible day that had changed her forever resurfaced in her.

“I’m going to have a chat in the square, lovely daughter, you please watch the sheep.”

Those are his father’s last words.

He never would have thought that he would never see him again. He shuddered and clung to the tree. Even that night she found herself there, in the same point, when everything was over. Alone, in the cold, in total despair. He did not know how he would survive: a fifteen-year-old girl, alone with her sheep, what could she do? “Father, what do I do now? Why did you leave me, too?”

He shouted it to the sky, but she did not receive an answer. She had nothing left: her mother died when she was in diapers, her father told her.

The only thing they left her, along with the small flock that had no more than twenty sheep, was that elm tree they had planted at her birth.

Suddenly something unexplained happened. The elm started to get hot under the girl’s icy palms, and looking up to the top, she heard her voice. His father’s, who would never come back from the square.

“You are strong, you are like the roots of this elm tree. Stand up, live, never let anyone command you.”

Aninfa felt warm in her heart: his father always told her that elm could heal her scars, and maybe that was happening to the grooves in her soul. Wiping her tears, she got up. And from the next day she rolled up her sleeves, to the surprise and often disapproval of the small community, because women do not follow sheeps. She had taken her sheeps and to grassland, using their wool, learning to make cheese and trade it for a piece of bread and other food, which allowed her to survive. Many courted her, calling themselves the only ones able to help her, what could she do without a husband? Despite these thoughts, Aninfa never wanted anyone. Those words gave her the necessary strength and determination.

Five years passed, and the elm was still there to support it.

Father, if you were here today, you would be proud of me.

Aninfa smiled, stroked the tree one last time and went home.

Tradotto da/Tranlsated by Martina Sardu

Racconto di Jessica Curreli (Concorso "Un racconto per RurAbility")
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