Lungo la via rettilinea Porru Bonelli di Gonnosfanadiga, si giunge al crocevia di via Roma, ed è lì che si trova la piazza intitolata “17 Febbraio” con il monumento commemorativo collocato al centro, ove posa una scultura intitolata “Pietà sarda”, a memoria dell’eccidio compiuto nel paese in quella data.
In fronte al basamento in granito, è una lapide con i nomi delle vittime dell’olocausto, martiri innocenti del dissennato e tragico bombardamento.
Quel mercoledì mattina del 1943 aveva visto la comparsa del sole dopo un periodo protratto di pioggia e la cittadina parve risvegliarsi da un lungo letargo. Molti agricoltori si recarono nelle campagne vicine, le donne uscirono di casa sollecitate dal tepore di quella giornata strappata alla primavera ormai incombente. Le strade si popolarono, le porte dei negozi si spalancarono per meglio mostrare le varie mercanzie, il pellaio del paese poté stendere all’esterno le pelli da acconciare. Da piccole stanze anguste facevano capolino i calzolai, coperti da ampi grembiuli dietro i rudimentali tavolini da lavoro, mentre foggiavano le scarpe su sagome di ferro e cucivano le suole, seduti in scanni bassi accanto alla porta aperta per meglio godere della luce solare.
Il vociferare delle persone sulle vie del paese era coperto dai rumori provenienti dalle botteghe degli artigiani che affacciano nelle strade e nei vicoli del paese; il battere del martello dei fabbri sull’incudine, quello dei maniscalchi sui ferri dei cavalli, il tam tam dei telai delle tessitrici, la pialla dei falegnami, la grande macchina da cucire dei sarti. Si fermavano tutti nelle botteghe; chi per osservare, chi per ordinare una nuova commissione, chi per ritirare una consegna, chi semplicemente per fare quattro chiacchiere.
Molte donne quel giorno si recarono al fiume a lavare i panni, altre sfaccendavano nelle loro case e i ragazzini ritornarono finalmente a giocare nelle strade e nei cortili.
Alle 14:45 la quiete del paese fu interrotta da un forte rombo di motori che infranse le pareti del suo cielo. La comparsa degli aerei fu fulminea. Le persone che erano all’aperto alzarono lo sguardo verso l’alto, chi si trovava all’interno delle abitazioni uscì e, istintivamente, fece altrettanto. Difficile in pochi secondi realizzare che quelli che sorvolavano il cielo erano fortezze volanti carichi di esplosivo, i quali, non esitarono a sgravarsi del loro peso per proseguire leggeri la loro folle corsa.
Si trattava di dodici bombardieri americani B25 “Mitchell”, scortati da diciassette caccia pesanti P38 “Lightning” che dopo aver superato il Monte Linas, fecero incursione nel paese, scesero in picchiata e sganciarono il carico di bombe a frammentazione nella via Porru Bonelli, via Marconi e via Cagliari.
La violentissima esplosione provocò una pioggia di schegge metalliche che colpì chiunque fosse nel raggio della deflagrazione, (tuttora sono visibili i fori nei muri delle case e ancora più evidenti compaiono in un cancello di via Marconi).
Bastarono pochi istanti per la strage. Gonnosfanadiga diventò teatro di morte.
Rivoli di sangue scorrevano nel rettifilo, pietoso sudario dei cadaveri i cui arti stesi a terra facevano da appendice a brandelli di carne e materia cerebrale spappolata in posti improbabili. Una bomba esplose sul greto del fiume, dove colse di sorpresa donne che facevano il bucato sterminandole all’istante, un’altra deflagrò in un crocicchio vicino dove erano bambini e ragazzi. Fu altro massacro.
I piloti americani, dall’alto, non poterono vedere i feriti sfregiati, deturpati nel viso e nel corpo, né poterono sentire le urla straziate delle mamme che piangevano i loro figli nè i bambini che invocavano invano il nome dei propri genitori. Colpirono il paese dritto al cuore, senza preavviso, senza motivo. Crivellarono muri, cancelli e le anime di chi non morì, poi senza scrupoli, dopo l’ecatombe continuarono la loro missione di morte, legittimati da una guerra che lasciava impuniti crimini e criminali.
In alto, quei piloti continuarono a sorvolare il cielo.
In basso, lasciarono l’orrore di una cittadina sprofondata nell’inferno.