Tra la fine degli anni ‘50 e per tutti gli anni ’60, il pane si faceva in casa, circa una volta a settimana e, dato che doveva durare così tanto, si lavoravano circa 15/20 kg di impasto per famiglia. La lavorazione dell’impasto era molto particolare e necessitava dell’ausilio di una macchina adeguata, una sorta di rullo che lavorava la pasta. Questo macchinario non era presente in ogni abitazione, pertanto per usufruirne occorreva recarsi nella casa della famiglia Pintus, ovvero la prima abitazione della via Porru Bonelli che, attraverso il versamento di una sorta di ‘affitto’, ne permetteva il suo utilizzo. Il macchinario era molto ambito e, pertanto, sovente occorreva mettersi in fila anche per ore, infatti, era nella norma rientrare a casa, dopo il suo utilizzo, anche per le 2 o le 3 del mattino. Questo macchinario era costituito da un piano, tipo tavolo (di circa 1,5 m x 1 m) in cui aveva posizionato, al centro, una sorta di tubo di metallo (come un mattarello gigante) che, a contatto con la tavola, appianava l’impasto (una sorta di sfogliatrice). In questo modo si otteneva un impasto elastico che successivamente veniva lavorato per ottenere le varie pezzature del pane.
Una volta tornati a casa e ottenuto l’impasto, si procedeva con la lavorazione delle pezzature e con la cottura.
I tipi di pane che si producevano in quel periodo erano molteplici:
- sa moddixina era il pane grande attuale, pesava sui 2 kg e la sua consumazione avveniva per ultima, in quanto la sua composizione faceva sì che durasse maggiormente nel tempo senza che diventasse eccessivamente duro;
- sa lada era invece una sorta di focaccia attuale, fatta con la farina e lievito madre;
- sa pillunca, fatta con una pasta compatta ottenuta dal grano duro;
- su pistoccu, fatto con la pasta dura;
- su coccoi, anche questo di pasta dura.
Inoltre, per la lavorazione erano necessari vari strumenti:
- sa castedda, un cesto grande circa 80 cm, dal bordo basso e il suo utilizzo era finalizzato alla lievitazione dell’impasto;
- sa crobi, un cesto ovoidale anch’esso finalizzato alla lievitazione.
Per la cottura, quasi ogni famiglia aveva il forno in casa e, in questo caso, occorreva mandare in temperatura il forno a circa 300° ma, non esistendo i termometri, ci si regolava in base al colore del ladriri, il tipo di mattone con cui era stato costruito il forno. Infatti, su ladriri della volta del forno diventava di un colore biancastro, indice, per l’appunto, dell’effettiva temperatura raggiunta; esso era accompagnato dall’ulteriore prova della bruciatura di un pezzo di carta: se diventava subito incandescente, la temperatura raggiunta era ottimale. Inoltre, per alimentare il fuoco, si procuravano dei pezzi secchi delle piante dei fichi d’india, in quanto erano di facile combustione.
Dopo la cottura del pane si usufruiva del calore del forno per cuocere i dolci.