Tziu Loi Diana era uomo mite. Parlava lentamente centellinando le parole che sceglieva accuratamente, o così sembrava, semplicemente, forse, si sforzava di ricordare fatti lontani della sua gioventù. Era sua abitudine andare giornalmente all’orto, alla periferia del paese, coltivava poche cose e le curava in modo quasi maniacale. Lo raggiungeva in bicicletta, ma non l’avevo mai visto montare in sella, ci camminava a fianco tenendola per il manubrio, legata alla canna una zappa ed un vecchio zainetto militare.
Un affetto particolare lo riservava ad un grande ciliegio, la bellezza della sua fioritura prima e la bontà dei suoi frutti poi, lo incantavano e, ai suoi occhi, lo rendevano unico. Una sera d’estate mi confidò che gli ricordava il grande ciliegio di Ovile Linas, i suoi rossi frutti e i merli che frequentavano i suoi rami, su mustaioi che anziché spaventarli rendevano più allegra e piacevole la loro presenza.
Le lunghe serate estive le riempivo spesso ad ascoltare i suoi racconti di caccia, la durezza del lavoro del capraio durante l’inverno e la semplicità di una esistenza scandita da albe e tramonti sempre uguali. A sentire i suoi compagni di caccia era il migliore nel seguire le tracce del cinghiale, non si portava mai il cane, il suo fiuto era più che sufficiente, sentiva lui la presenza della bestia, pigada fragu, mai asutta ‘e bentu.
Nella bella stagione, almeno una volta alla settimana, salivamo ad Ovile Linas a trovare Tziu Peppinu, suo fratello minore ed unico ancora presente sul Linas. Quella mattina mi alzai molto presto e trovai Tziu Loi ad aspettarmi in sa Domu de su biu. Una fiocca luce filtrava stancamente dalla porta, il fumo delle Nazionali senza filtro si mischiava al rosso di un’alba molto promettente. Su un piccolo tavolino metallico un posacenere colmo di mozziconi di sigarette e sa musciglia che sempre lo accompagnava in queste occasioni. Il tavolino, mi spiegò, non era proprio un tavolino, ma l’imbragatura di una bomba recuperata a Spadula in un terreno di proprietà della moglie. Indossava un paio di calzoni di fustagno blu, scarponi da capraio, crapitas grussas, e spesse calze di lana. Una camicia a quadri sotto uno spesso maglione di lana fatto a mano. Un berretto grigio di foggia antica che non abbandonava mai, completava il suo abbigliamento.
Il Rettifilo Porru Bonelli era quasi deserto ma i Bar Carreras, Spina e Collu erano aperti e alcuni avventori consumavano il primo caffè e certo un ristoratore Villacidro Murgia. Alcune donne attraversavano Piazza Vitt. Emanuele per poi infilarsi in Chiesa. Lungo la carrareccia per Santa Severa incontrammo due motorette con alcuni contadini sul cassone. L’aria era umida e fresca e sapeva di menta e di elicriso, accesi il riscaldamento della mia rossa 500 proprio mentre ci infilavamo nel lungo serpente scuro che ci avrebbe portato da Tziu Peppinu Diana. Genniau evocava riti ancestrali, leggende di apparizioni ed erbe magiche da raccogliere nelle notti di luna piena, altre, le più potenti, nella notte di San Giovanni. Ogni località che attraversavamo veniva segnalata da Tziu Loi con ricchi aneddoti che io conoscevo molto bene per averli ascoltati molte volte ma che fingevo di udire per la prima volta anche perché era sua abitudine arricchirli di nuovi particolari. Prameri, su Facciasobi de Arremundu Sadru, su Procili de Marronis, Is Pesadas de Cesa, Toguru, Sa Mitza de Loi Diana, e tanti altri ancora che sarebbe troppo lungo elencare. Il rumore della 500 spesso copriva la voce de Tziu Loi ma non per questo io lo ascoltavo e lo osservavo con meno interesse e attenzione. Ormai ogni parola e ogni suo gesto era scolpito nella mia mente. Percorremmo su Strintu de is Figus sotto una cornice di figu crabiu, grappoli di piccoli frutti ben presto sarebbero diventati pasto prelibato di merli e non solo. Alla fine della ripida salita una splendida cascata mise a dura prova la marmitta e il motore della 500 sbuffò come una vaporiera. Quando arrivammo a su Cuili de is Muntonis volle fermarsi per osservare sotto un vecchio leccio, quasi cercasse conferma ad un presentimento, ad una intuizione o più semplicemente rinfrescare un vecchio, piacevole ricordo. Risalì in macchina e, guardandomi dritto negli occhi attraverso le sue spesse lenti, disse semplicemente “non sindi poderada, torrada sempri ainoi “.
Un meraviglioso castagno e alcuni ciliegi ci avvisarono che eravamo arrivati. L’ovile Linas, una vecchia costruzione dei primi anni del secolo scorso, in pietra, era davanti a noi. Tziu Peppinu, sull’uscio, ci aspettava appoggiato al parapetto de sa lolla, il fumo del comignolo ci dava ancora una volta il benvenuto. Tra Tziu Loi e Tziu Peppinu era evidente la grande sintonia e l’affetto, in particolare Tziu Peppinu si rivolgeva al fratello maggiore con rispetto e deferenza non comune di questi tempi. Avevamo portato per il pranzo arselle e muggini di Marceddì. Le avremo preparate dopo il nostro ritorno dalla Cascata del Rio Linas, Sa Spendula. Zaino in spalla io, musciglia Tziu Loi ci incamminammo lungo un sentiero che percorre la cresta che separa la vallata di Figus dal Riu Linas. Lo sguardo, sulla sinistra, si perde in lontananza verso la Genna ‘e Impì e la Genna Eidadi, Acqua Zinnigas, sulla destra il Riu Linas e i Monti di Villacidro e Domusnovas, Perda e Cragiolas e Muru Picciu.
Il percorso è agevole e molto piacevole, ci accompagna un profumo inebriante di elicriso e lavanda che cambia improvvisamente per trasformarsi in una zaffata pungente di teucrio, appena attenuata da una fresca fragranza di mentucce e rosmarino che una brezzolina ancora carica di umidità deposita sulle nostre narici. Ogni tanto Tziu Loi si ferma, si guarda intorno , il suo sguardo guarda lontano, la sua mano si posa su una roccia, quasi ad accarezzarla, a salutarla. Il sentiero è disseminato di ginepri, annosi e contorti ginepri quasi ad indicarci la strada. “Ora dobbiamo scendere verso il fiume” dice Tziu Loi, dopo un lungo silenzio. Mi indica una ferula, secca e bella grossa, la sradica e me la porge, ripete l’operazione e mi indica un lungo, stretto e ripido canale. Su Canali de Arroia de Cani. “Su sciusciau de Arroia de Cani, serbinti camba e genugus bellus e una bella feurra po non ci calai fuendu” dice Tziu Loi guardandomi negli occhi. Si scende attraverso uno strettissimo sentiero frequentato da capre e cinghiali. La mia guida, malgrado l’età avanzata scende agevolmente e mi precede, ogni tanto si gira per controllare che stia dalla parte opposta alla sua. “Passa sempri a s’atra parte, chi arrumbuada perda non ti ingollis, aprendo così la prima regola per chi va in montagna e cammina fuori pista in terreni scoscesi.
Lo vedo fermarsi e ascoltare, ascolta e osserva, stringe la ferula con entrambe le mani, sposta lentamente il viso ora a destra ora a sinistra, ora in alto. Sulla destra un fitto macchione nasconde il Rio sottostante, ho l’impressione che cerchi di sentire gli odori. Lo vedo raccogliere un sasso, lo lancia verso la macchia scura che aveva attirato la sua attenzione e inconsapevolmente anche la mia, portando nel contempo, con rapidità giovanile, la ferula all’altezza della spalla. Pum! Pum! Un grosso cinghiale esce velocemente da sa foscina e, come in altre occasioni avrebbe onorato lo spiedo dell’Ovile. “Non perdidi mai s’abitudini sa bestia, torrada sempri a su connotu”.
Il Riu Linas lo raggiungiamo in pochi minuti, alcuni corbezzoli, maestosi e di una bellezza incredibile, ci offrono la loro ombra per una breve sosta. La cascata è ricca d‘acqua e riesco a scattare alcune foto interessanti. Il ritorno è meno agevole e meno piacevole, “unu passu annantis e dusu accou” sentenzia Tziu Loi. Le arselle e i muggini di Marceddì, come sempre, ottimi.